A proposito di plagio, originalità, diritto d’autore, copyright e comicità

Nell’ottobre del 2020, il Fatto quotidiano pubblicò la mia mini-serie in 8 puntate dedicata a temi di cui in Italia si parla troppo spesso con scarsa cognizione di causa, trinciando giudizi ad minchiam (di solito per diffamare chi, per vari motivi, sta sulle palle). Qui trovate il testo e le fonti citate, puntata per puntata. Buon viaggio!
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 15 ottobre)
Vi ringrazio per aver “riabilitato” Luttazzi. Volevo ringraziarvi pubblicamente per aver ridato spazio a Daniele Luttazzi. Potrei abbonarmi al Fatto solo per questo. Lo trovo un fatto molto simbolico, dopo l’editto bulgaro del Caimano che lo esiliò insieme a Biagi e Santoro, e dopo la campagna di fango nei suoi confronti per aver rubacchiato, reinterpretandole, alcune battute di comici stranieri, come fanno tutti. Bravi. Luca Salvi (Fq, 14 ottobre 2020)
Il problema di questo elogio, alla cui ingenuità voglio credere, consiste nell’implicare che fossero fondate le accuse della campagna di fango organizzata contro di me nel 2010: fomentata in rete da anonimi dopo il mio monologo a Raiperunanotte, fu amplificata con gusto da giornalisti berlusconiani e pidini, ben felici di sputtanare chi aveva accusato di complicità Berlusconi e il PD. Mi tacciavano di “plagio” fingendo di aver “smascherato” una cosa che tenevo “nascosta” (invece, la notizia delle citazioni da trovare era in homepage sul mio blog fin dalla sua apertura nel 2005, e i fan ne disquisivano in chat e forum da anni: tutto en plein air). Nel 2007, del resto, giornali e tv avevano sostenuto che pure la mia battuta su Giuliano Ferrara (pretesto con cui La7 chiuse d’arbitrio il mio Decameron) fosse un plagio (da Bill Hicks). La7, nel farmi causa, mi accusò dunque anche di plagio, ma la sentenza del 2012 diede ragione a me, specificando che non si trattava affatto di plagio. Il problema è che la nozione di plagio viene data per scontata, ma non lo è: per giudicare nel merito occorrono competenze giuridiche e letterarie che i più, per forza di cose, non hanno. La questione, dunque, merita di essere affrontata con criterio, in modo che la si smetta di prendere cantonate, più o meno convenienti, e di propalare il falso, più o meno interessato. L’errore di tanti è dovuto a un concetto ambiguo, quello dell’originalità, la cui connotazione positiva ha solo un carattere ideologico/pregiudiziale. La superstizione dell’opera originaria come opera originale, dotata di una certa sacralità, nasce con le traduzioni bibliche: il concetto di testo ‘definitivo’ corrisponde soltanto “alla religione o alla stanchezza” (Borges, 1975). La cultura orale incoraggiava la creazione di testi per incorporazione e adattamento di altri testi, considerati patrimonio comune: l’arte era un’impresa collettiva. “Omero cucì insieme parti prefabbricate” (Ong, 1982). La scrittura fece sorgere il concetto di originalità, che la stampa rafforzò per difendere i propri privilegi: si arrivò a considerare l’autore un genio che crea ex nihilo. La poetica modernista rifiutò questa ideologia romantica, e tornò ai metodi intertestuali dell’oralità impiegando il collage e il pastiche. L’Ulisse di Joyce, con il suo doppio movimento retorico (un’epopea ridotta alla cronaca della giornata di un impiegato, la giornata di un impiegato amplificata a epopea, con echi di Omero, Dante, Shakespeare, e brani di giornale) mostra come collage e pastiche producano effetti nuovi (omaggio, affrancamento, umorismo, parodia, satira). Joyce si diceva contento di passare alla storia come un “paste and scissor man”, uomo colla e forbici, uomo copia-e-incolla. “Le ripetizioni, quando sono volute, non sono affatto tali (anche se redatte esattamente con le stesse parole), ma sono l’espediente più adatto per provocare un raffronto” (Melandri, 1968). E’ uno dei motivi principali per cui “non esiste l’originalità letteraria: tutta la letteratura è intertestuale” (Eagleton, 1997). Da quando mi sono accorto di quanta parte abbia, negli argomenti dei profani, il pregiudizio dell’originalità, scrivo “originario” per sottolineare che la precedenza di un testo è solo cronologica, non valoriale. (1. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 20 ottobre)
Plagio e originalità. Neubauer (2009) considera le accuse di plagio una conseguenza deteriore dell’idea romantica di originalità dell’opera letteraria, non più giustificabile in epoca postmoderna, quando l’immissione di un testo altrui nel proprio rientra tra le risorse lecite della creatività. “La credenza di essere originali è insieme ingenua e presuntuosa; esprime solo mancanza di cultura” (Melandri, 1968). L’ironia è che i poeti romantici, Wordsworth e Coleridge in testa, elogiavano l’originalità del genio, ma poi saccheggiavano Milton, il loro nume tutelare, e centinaia di altre fonti. Non potevano fare altrimenti: nell’arte, la sapiente mosaicatura di auctoritates, o fonti letterarie, dà nobiltà allo stile e bellezza alla inventio. E’ la lezione di Dante, che a sua volta la riprende dagli antichi, i quali integravano e ricombinavano nella propria opera gli apporti più diversi: i rimandi rinsaldavano la complicità fra autore e lettore, invitato a godersi l’agnizione. Del resto, se anche gli elementi non sono “originali”, non è detto che non sia “originale” la sintesi, ovvero “la pretesa di interpretare daccapo tutto quanto” (Melandri, 1968). Leon Battista Alberti compone i dialoghi delle Intercenales (1440) con la stessa tecnica musiva, dimostrando come sia possibile, a partire da materiali di riuso, ottenere una novità formale e funzionale (dunque, semantica) mutando i loro rapporti (Cardini, 2004); e l’antica pratica dei centoni (II-IV sec. d.C.) usa solo versi altrui, stravolgendone del tutto il contenuto per semplice giustapposizione. Il cut-up è la versione aleatoria del centone: Burroughs ritaglia le frasi da un libro e le usa come tessere per comporre un testo differente.
Il significato di una frase è la funzione che svolge all’interno di una pratica sociale, cioè di un contesto. Due frasi identiche, in contesti differenti, hanno funzioni differenti, dunque sono due atti linguistici (enunciati) differenti (Austin, 1962; Searle, 1969). Per esempio, una donna che chieda alla figlia “Russi di notte?” sta conversando; la stessa domanda, fatta da una donna sposata al garzone che ha una cotta per lei, acquista tutto un altro significato. Dire che due battute, estrapolate dai loro contesti, “sono uguali, quindi è plagio”, è un’idiozia come voler sostenere che due scatoloni, siccome sono identici, hanno lo stesso contenuto. La battuta “Mia moglie è una donna” (“My wife’s a woman”) fu scritta da Oscar Wilde, poi da Joe Orton, poi da Neil Simon: nei contesti rispettivi, quella stringa di parole ha funzioni diverse; di fatto, sono tre battute differenti.
Chi esalta la mitologica “originalità” svaluta in modo ottuso l’ingegno sapiente di chi sa decantare una tradizione culturale. Quando il cadavere del Che fu esibito alla stampa dalla polizia boliviana, Mark Hutten lo fotografò a imitazione del Cristo morto del Mantegna: in tal modo, suggerì un paragone politico fra il Che e la figura di Cristo. Questo controllo dell’effetto richiede cultura. “Non conta cosa prendi, conta dove lo porti” (Godard). Il corollario è che, per un artista, tutta l’arte è contemporanea (Eliot, 1919), e può essere usata per parlare dell’oggi. Proust, nella Recherche, immagina un’incursione aerea con “La cavalcata delle Valchirie” come commento sonoro: Coppola gli prende in prestito l’idea per una delle scene più memorabili di Apocalypse Now.
Le attività umane si valutano in base alle conseguenze sulla cultura e sulla società, non in base a una presunta “originalità”, come dimostrano Tarantino e Facebook: in ogni fenomeno di ripetizione, l’identico perde subito la propria identità, e ciò che conta è il differente (Nancy, 2008).
Riassumendo: mezzi e risultati non vanno confusi. Che il mitra sia inglese è irrilevante, se ci ammazzi Mussolini. (2. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 21 ottobre)
Copyright e diritto d’autore. Il copyright è il monopolio temporaneo su un’opera, concesso dallo Stato all’autore. La sua tradizione è propria dei Paesi anglofoni, dove l’ordinamento giuridico (common law) si fonda più sui precedenti giurisprudenziali (sentenze) che su codici e leggi, come invece nel nostro sistema (civil law). Il copyright equivale al nostro diritto d’autore, ma ne differisce per alcuni aspetti importanti, sia filosofici che disciplinari. Per esempio, il copyright legittima la tutela temporanea delle opere come incentivo alla creazione, affinché la società ne benefici quando le opere diventeranno di dominio pubblico (diritto utilitaristico); invece il diritto d’autore legittima la proprietà intellettuale in quanto frutto di un lavoro personale (diritto morale). I due tipi di legge (copyright e diritto d’autore) portano agli stessi risultati pratici, ma non sempre: per esempio, se un autore cede il diritto di adattamento, e poi ci ripensa perché non è soddisfatto del risultato, il copyright non glielo permette, il diritto d’autore sì (Geller, 1994). Differenza sostanziale: negli USA, per godere di protezione legale, un’opera va depositata, dietro pagamento, al Copyright Office; da noi, il diritto d’autore nasce automaticamente con la creazione di un’opera.
Il copyright ha come oggetto l’opera (works): la tutela se è “originale” (originale in senso legale, cioè creata da un autore in modo autonomo) o se manifesta una modica quantità (modicum) di creatività (Feist Publications, Inc. v. Rural Tel. Serv. Co., 1991; VerSteeg, 1993). Un’opera derivata gode del fair use se trasformativa, cioè creativa (Campbell v. Acuff-Rose Music, Inc., 1994). Il copyright tutela l’espressione: non le idee, i procedimenti, i metodi operativi, i concetti, le scoperte. E’ un amalgama di strutture concettuali fondate sull’ideologia dell’autorialità (Bracha, 2008): la sua stesura incorpora una nozione di originalità mutuata dalla poetica romantica (Kaplan, 1967; Boyle, 1988; MacFarlane, 2007), che all’inizio serviva a distinguere le opere preesistenti da quelle derivate, ed era dunque sinonimo di originarietà (Casas Vallés, 2009). Il concetto romantico di originalità è un artificio retorico che nega la natura collettiva dei processi creativi e perpetua l’ideologia di una società composta da individui in competizione (Mould, 2018).
Il diritto d’autore ha come oggetto “le opere dell’ingegno di carattere creativo”: ne tutela l’espressione formale (forma esterna), la struttura (forma interna) e l’in sé (il contenuto) che caratterizzano l’opera come “originale”, cioè come frutto dell’attività creativa dell’autore. E’ lecito riprendere opere altrui a scopo di critica, discussione, insegnamento (“purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”), o per ottenere un effetto artistico diverso (la nuova opera ha un nuovo “in sé”, pertanto, oltre a essere originale, è anche originaria): ne sono esempi la parodia e l’Appropriation Art.
Plagio è l’utilizzazione/riproduzione (totale o parziale) di un’opera altrui, attribuendosene la paternità. E’ una violazione dei diritti patrimoniali (diritti esclusivi di utilizzazione economica dell’opera) e morali (a tutela della personalità dell’autore). Un’opera è plagiata se usa gli stessi elementi espressivi e partecipa dello stesso significato dell’opera originaria. Non è possibile verificare il plagio con algoritmi o procedure automatiche, né darlo per scontato, poiché la valutazione richiede un’analisi qualitativa, oltre che quantitativa. (3. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 22 ottobre)
Citazione e plagio. Quando si citano brani altrui in un testo accademico o giornalistico, lo standard è quello di segnalare la fonte. E’ una conseguenza della polemica fra gli allievi di Newton e quelli di Leibniz nel XVIII secolo: la citazione, da allora, serve a stabilire la primogenitura di un’idea, alla stregua dei brevetti. Questa convenzione non riguarda, invece, l’arte, dove la citazione svolge altre funzioni: omaggio, sfoggio, complicità con l’uditorio, addizione/variazione semantica, critica ideologica, parodia. “L’arte è una conversazione, non un ufficio brevetti” (Shields, 2010): è un dialogo con il passato, sul presente. Non attribuire una citazione non è di per sé violazione di copyright (UMG v. Disco Azteca, 2006), anche perché la citazione artistica usa un messaggio precedente come un fatto in un nuovo messaggio, e il copyright non tutela i fatti (Gordon, 1992). Per il diritto d’autore, è lecito riprendere opere altrui al fine di ottenere un effetto artistico diverso: da giudicarsi caso per caso, se c’è lite. Un’opera è plagiata quando usa gli stessi elementi espressivi e partecipa dello stesso significato dell’opera originaria; ma il plagio dichiarato (attribuendo le fonti, o usandone di celebri, o invitando a cercarle, o esibendole come fa l’Appropriation Art, o rendendo pubblica la prassi citazionista) non è plagio, perché questo presuppone il dolo. Chi si ritiene plagiato ha cinque anni dalla data del presunto plagio per sporgere denuncia, poi il reato è prescritto.
Originalità, creatività, plagio. La dottrina italiana riconosce da tempo l’impossibilità della creazione “originale” nell’accezione romantica di ex nihilo (Piola Caselli, 1927; Santoro, 1968). La legge sul diritto d’autore utilizza una formula descrittiva (“opere dell’ingegno di carattere creativo”), e anche il copyright enfatizza l’originalità/creatività: ma affermare che l’originalità sia una forma di creatività è arbitrario (Madison, 2010). “L’azione autoriale è più simile alla traduzione e alla ricombinazione che alla creazione di Afrodite dalla spuma del mare” (Litman, 1990). Un’opera viene creata con l’apporto di tanti, di cui un autore si avvantaggia; questo argomento limita le pretese di chi sostiene il diritto morale dell’autore, e pertanto vorrebbe un copyright illimitato (Bard & Kurlantzick, 1999). Per giunta, “creatività” resta un concetto non definito: un giudizio equo richiede la verifica di ciò che di non banale è stato aggiunto, tolto, sostituito, cambiato e riarrangiato rispetto al testo fonte (VerSteeg, 1993). D’altra parte, con il racconto su Pierre Menard (in Finzioni, 1944), Borges ha dimostrato che anche l’assenza di variazione testuale può comportare un cambiamento notevole del significato, quando cambia il contesto: “Attribuire L’imitazione di Cristo a Celine o a Joyce non è un rinnovamento sufficiente delle sue tenui indicazioni spirituali?” Per le teorie estetiche contemporanee, la somiglianza non è indizio di alcun reato: è una traccia dell’interazione, necessaria e inevitabile, con la cultura esistente (intertestualità).
Anche la retorica che tratta i diritti di proprietà intellettuale come diritti morali o naturali è una semplificazione dell’atto creativo (Arewa, 2007). Scrive Updike (1991): “Il motivo segreto per cui leggo è sempre stato non quello di giudicare, ma quello di rubare.” L’arte non è fatta di originalità, ma di procedimenti. L’industria della moda, per esempio, non solo prospera in assenza di copyright, ma la sua creatività consiste di continue appropriazioni (Raustiala & Sprigman, 2006). (4. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 23 ottobre)
La comicità e il copyright. Negli Stati Uniti, le battute spiritose (joke) non sono protette con certezza dal copyright. La legge sul copyright, infatti, tutela l’espressione di un’idea, non l’idea; ma quando solo un’espressione può rendere, con lo stesso effetto, quell’idea (è proprio il caso del joke, in cui basta cambiare una parola, o la sua disposizione, per perdere l’effetto esplosivo), l’espressione viene considerata fusa con l’idea, e il copyright non si applica, altrimenti si darebbe il monopolio su un’idea (è la cosiddetta merger doctrine). C’entra anche la valutazione de minimis: una frase, benché creativa, non è un’opera tutelabile dal copyright, come spiega il Governo americano con un parere sul caso Southco, Inc. v. Kanebridge Corp (2004). Inoltre, i joke si fondano spesso su scènes à faire (temi e soluzioni espressive diventati convenzionali), che non sono protette dal copyright. Soprattutto, poiché le formule comiche non sono infinite, ogni joke è inevitabilmente la riscrittura di un joke precedente, sicché, quando A sostiene che B gli ha copiato la battuta X, B può dimostrare facilmente, se ha una buona cultura comica, che la battuta X a sua volta è una copia della battuta Y (Hoffman v. LeTraunik, 1913), quindi non tutelabile dal copyright. Come se non bastasse, è difficile sostenere che un joke altrui sia copiato proprio dal tuo, se i social ne esibiscono decine di varianti simili. Per di più, una stessa espressione, in un contesto nuovo, acquista significati nuovi, diventa un nuovo enunciato; sicché una gag, in un altro contesto, non farà mai ridere per gli stessi motivi (semantici e pragmatici): genera nuovi effetti comici, è una nuova gag. Infine, la risata scatta grazie alla tecnica, cioè al meccanismo retorico della frase, e il copyright non tutela le tecniche. Date queste premesse, neppure l’assoluta identità verbale basta a provare automaticamente la violazione del copyright di un joke. Dove la legge non può arrivare, arrivano le norme sociali, che regolano il comportamento fra i comici nel loro ambiente di lavoro.
Le norme sociali dei comici. I comici proteggono il proprio materiale comico con un sistema tribale di norme informali con cui affermano la proprietà delle gag, ne regolano l’utilizzo e la cessione, e impongono sanzioni a chi trasgredisce. Benché seguito in tutto l’Occidente a causa dell’influenza USA, questo sistema non è esente da criticità gravi. Per esempio, a differenza del copyright, le norme sociali dei comici vietano il riutilizzo non autorizzato sia dell’espressione che dell’idea; e questo divieto ha una durata illimitata. Anni fa, Carlos Mencia fu accusato dal web di aver plagiato una routine di Bill Cosby: il plot (l’idea) era simile, ma il testo e la punchline erano diversi. In un processo per infrazione di copyright, Mencia sarebbe stato assolto (Oliar & Sprigman, 2008). A chi, in un modo così sommario, viene giudicato un trasgressore, sono inflitte sanzioni sociali: discredito (sparlare di lui, gogna), ostracismo (rifiutare di lavorarci insieme, escluderlo dai locali di stand-up) e minacce di violenza fisica (cui talvolta si ricorre). In aggiunta, il web oggi permette a qualunque anonimo la soddisfazione gaglioffa di accusare un comico di joke stealing (furto di battute), pur non avendone alcun titolo, o competenza; ma, se il comico è famoso, il linciaggio mediatico è inevitabile, e il comico non viene tutelato in alcun modo. Marc Maron: “Ci sono persone che credono sia compito loro fare i poliziotti della comicità, giudicare la vita delle persone. Sono solo bulli.” (Voss, 2010)
(5. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 27 ottobre)
Il sistema delle norme sociali dei comici non è in vigore da sempre. Negli USA, all’epoca del vaudeville (e fino agli anni ’50) l’appropriazione delle gag era una consuetudine diffusa, non sanzionata, poiché la comicità era sentita come un bene comune, e il valore di un comico era attribuito al miglioramento che il suo stile apportava alla tradizione. C’è chi sostiene (Oliar & Sprigman, 2008) che negli anni ’60 lo show-biz comico abbia implementato il nuovo sistema di norme anti-appropriazione poiché la comicità era diventata meno generica, più personale; ma questa correlazione causale fra nuovi contenuti e nuove norme è ritenuta arbitraria da Madison (2009).
Il sistema di norme sociali serve a impedire il danno economico: è tabù rubare dal repertorio di un comico che lavora nella stessa piazza. La piazza coincide con la propria nazione/lingua: per esempio, dire in tv una battuta sentita in teatro da un altro comico la brucia per sempre, ed è un danno economico. Tutti i comici fanno da sorveglianti. Chi pensa di aver subìto un torto affronta personalmente il trasgressore e chiede spiegazioni: di solito, questo è sufficiente a stabilire la verità dei fatti, a correggere i comportamenti, a evitare recidive; e la cosa finisce lì. Nel caso in cui i due convengano sulla creazione indipendente e contemporanea della stessa gag, uno dei due (quello che ne ha meno bisogno per la sua routine) può decidere di toglierla dal proprio repertorio, come cortesia. I pochi aneddoti riguardanti l’uso della violenza fisica per punire un trasgressore sono leggendari, e raccontati nell’ambiente con gusto (in Italia, quello di Faletti che dà un pugno a Paolo Rossi): la tribù non condanna la violenza; in questi casi, anzi la giustifica, come giustifica la gogna. A ben vedere, le norme del sistema servono a mantenere la proprietà della gag in mano a una sola persona (il comico che usa la gag). Nell’ambiente dei comici, infatti, per convenzione:
1) Se un comico è pagato per scrivere una gag, la gag non è più sua, ma di chi gliel’ha comprata. Secondo la legge sul copyright, invece, la proprietà di un’opera è dell’autore (a meno che questi non lavori per un’azienda).
2) Vendere una gag è vendere ogni diritto di utilizzo. Chi scrive gag per un comico non può neppure attribuirsele: una volta vendute, non sono più sue. La vendita non richiede alcun contratto fra le parti, a differenza della licenza che permette l’uso di un’opera protetta da copyright.
3) Fra diversi co-autori di una gag, la proprietà viene attribuita a chi ha ideato la premessa, anche se la punchline non è sua. Secondo la legge sul copyright, invece, la proprietà di un’opera è divisa fra tutti i co-autori.
4) Se due comici stanno usando la stessa gag, e la creazione è giudicata da entrambi indipendente, la proprietà della gag è di chi l’ha eseguita per primo. Nel copyright, invece, la creazione indipendente rende entrambi co-autori dell’opera. La priorità è un criterio che vale solo per i brevetti.
5) Se due comici stanno usando una gag simile, la gag apparterrà al primo che la esegue in tv: da quel momento, l’altro smetterà di eseguire la propria, poiché non vuole essere accusato di furto dai colleghi e dal pubblico di fan, anche se non ha fatto nulla di male. Ritroviamo qui il tema della priorità, tipica dei brevetti e non del copyright.
6) Se due comici freelance inviano via email la stessa gag a un conduttore di talk-show, e la gag viene usata nel programma, viene pagato chi ha inviato la gag per primo. Di nuovo la priorità dei brevetti. (6. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 28 ottobre)
Ancora sulle norme sociali dei comici. Il sistema informale di norme osservato dai comici contemporanei privilegia la proprietà della gag, e non la performance, perché i cambiamenti tecnologici (radio, tv, web) hanno reso la proprietà più conveniente: la motivazione reale delle norme dei comici è ridurre la competizione altrui restringendo il numero dei comici accreditati (Strandburg, 2009). Il tabù presidiato dalle norme ha un legittimo significato economico, ma la sua retorica ricorre, per giustificarlo, al concetto romantico di originalità (Kaplan, 1967): un comico è tanto più apprezzato quanto più è originale, un concetto di cui abbiamo visto l’arbitrarietà. Nel vaudeville, invece, la valutazione riguardava la tecnica della performance: dire meglio la battuta, colorarla meglio, temporeggiare meglio con il pubblico, saper creare un monologo migliore (cioè più appropriato all’occasione) ricorrendo alle decine di migliaia di battute del repertorio comune, pubblicate su periodici del settore e in voluminosi tesauri a divisione tematica. Lo stile, che è impossibile da imitare ed è più personale della gag, era considerato più importante perché era quello a garantirti i favori del pubblico teatrale: una motivazione economica, senza però l’ipocrisia originalistica delle norme attuali. Il criterio dell’originalità permette una gestione più facile del sistema informale di norme, ma questo non significa che criterio e sistema siano giusti.
I comici non fanno causa ad altri comici (questa norma sociale si ritrova in altre comunità regolate da usanze, cfr. Ellickson, 1991), ma in una tribù la cosa più importante è la reputazione: fondamentale per lavorare, o per ghettizzare. Robin Williams smise di frequentare i locali di stand-up, dove improvvisava a ruota libera ogni sera, perché stanco delle occhiatacce dei colleghi, dopo che qualcuno aveva sparso la voce che rubasse le battute (Grobel, 1992). Comici minori che si esibiscono in luoghi non prestigiosi (crociere, feste aziendali) possono “rubare” tutto quello che vogliono: la tribù li considera già scadenti, non costituiranno mai un pericolo competitivo. Un’altra eccezione sono i comici esordienti: il mestiere si impara facendolo, e la tribù chiude un occhio sul debuttante che sta cercando la propria voce usando sul palco materiale derivato; il debuttante non fa danni, essendo il suo pubblico esiguo. Il criterio del danno ricorda quello tenuto in considerazione dal giudice nella limitazione del copyright per fair use: se la copia non danneggia il mercato (la piazza) dell’opera originaria, il copyright non si applica.
I proprietari di locali tendono a non far lavorare chi “ruba” battute ad altri; ma se ne fregano, quando il cleptomane è un comico famoso (Persall, 1991). Inoltre, se il comico è famoso, l’accusa di rubare mossagli da un principiante viene tenuta in scarsa considerazione (Oliar & Sprigman, 2008). Certi locali usano una luce intermittente per segnalare al comico in scena che è entrato un “ladro” di battute: il comico in scena può decidere allora di proteggere il materiale nuovo passando al vecchio repertorio; oppure si mette a improvvisare, magari interagendo con il pubblico.
Al grosso pubblico non interessa chi è l’autore delle gag: basta che il comico faccia ridere (Geoghan, 1989). Il pubblico di appassionati, invece, introietta le norme sociali della tribù: tiene molto alla presunta “originalità” del comico, e può intraprendere un linciaggio mediatico contro un ipotetico trasgressore (Oliar & Sprigman, 2008). (7. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 29 ottobre)
Il motivo per cui le norme sociali dei comici sono dannose è che, a differenza del copyright, non considerano gli interessi della società nel loro complesso. Altri aspetti negativi: 1) Le norme sociali dei comici vietano non solo il riuso delle espressioni, ma anche delle idee. Vogliono impedire il furto di battute (joke stealing), ma in realtà proibiscono l’uso di battute simili, premesse simili, idee simili: cioè non proibiscono il furto, ma la somiglianza (Rothman, 2009). Questo è un limite enorme allo sviluppo creativo delle gag. Inoltre, il divieto sulle idee viola la libertà di espressione. 2) Le norme sociali dei comici non ammettono il fair use, non prevedono un processo equo, né la possibilità di appello. 3) La valutazione della trasgressione non segue protocolli definiti, è del tutto arbitraria. 4) Il danno alla reputazione dell’ipotetico trasgressore può durare per sempre, e quindi è sproporzionato rispetto a qualunque presunta trasgressione. Robin Williams, vincitore di tre Grammy Awards per il miglior album comico dell’anno, non poteva entrare serenamente in un locale di stand-up neppure dieci anni dopo le accuse di presunti plagi. Come se non bastasse, il web, con la sua assenza di oblio, oggi rende perenne la gogna anonima. 5) La sanzione tramite violenza (o minaccia di violenza) è illegale. 6) A differenza delle norme sociali dei cuochi e delle fandom, che incoraggiano il riuso purché ci sia attribuzione, quelle dei comici impediscono qualunque riuso, anche con attribuzione, poiché il riuso di una gag la usura. Le norme sociali dei comici sarebbero assai dannose, se impiegate in altri campi creativi; né sono accettate all’unanimità in quello comico, visto che ci sono campioni che non sono tenuti a uniformarvisi (Oliar & Sprigman, 2008; Rothman, 2009). 7) Le norme sociali dei comici sono informali, e sono state create senza che sia stato possibile discuterle. Per tutte queste ragioni, limitano in modo primitivo i diritti della collettività (Rothman, 2009).
In Italia, il diritto d’autore tutela i joke in quanto opere letterarie; ma, come nel resto del mondo occidentale, non ci sono precedenti di comici che fanno causa a comici (vale il de minimis), e le controversie sono regolate seguendo le norme sociali della comunità comica, con tutti gli eccessi e i malintesi del caso. L’unico precedente legale in materia di plagio di joke si trova nella sentenza (2012) che mi fece vincere la causa intentatami da Telecom Italia Media dopo la chiusura arbitraria del programma televisivo Decameron (La7, 2007). Il giudice scrisse: “Non vi è prova della mancanza di originalità del monologo in questione, considerato che la circostanza che l’artista, nell’elaborazione della sua opera creativa, si ispiri ad altri soggetti, non esclude l’originalità dell’opera medesima.” Per decidere quanto sia riconoscibile l’apporto creativo che dà “originalità” e fa escludere il plagio, non basta la semplice comparazione degli elementi isolati (un classico di chi accusa a capocchia, o con malizia): va sempre considerato il contesto, che definisce il tipo di relazione fra gli elementi. “In un contesto diverso, un testo dice cose diverse: è un altro testo” (Rotstein, 1993); ma per tacciare filosofi come Giordano Bruno di plagio dagli eretici, dunque di eresia, e condannarli al rogo, la furba Inquisizione ritagliava le frasi dai due contesti e le appaiava, una pratica truffaldina tuttora usata in campo artistico per delegittimare concorrenti e avversari.
Morale della favola: poiché ignoranti, invidiosi e bacchettoni (che spesso coincidono) sono la maggioranza, non c’è nulla di più sincronizzabile di un linciaggio. (8. Fine)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 25 giugno)
E per la serie “Lettere luterane”, la posta della settimana.
Si celebrano i 20 anni di La7 e di te non c’è traccia nelle commemorazioni. (Sergio Ghermandi, Modena)
Sono il loro convitato di pietra. Nel 2007 chiusero il mio Decameron dopo la quinta puntata con un pretesto (la battuta su Giuliano Ferrara che apriva la puntata sulla guerra coloniale, criminale e illegale di Bush, Blair e Berlusconi in Iraq). Nella sesta, mai trasmessa, iniziavo con un monologo di 20 minuti dedicato alla Spe Salvi di Ratzinger e alle ingerenze del Vaticano nelle questioni dello Stato italiano (diritti civili, eutanasia, staminali, Cus, fecondazione assistita). Alla chiusura, il Cdr di La7 denunciò una censura nella censura: “Con un incomprensibile e arrogante atto censorio, il vicedirettore Pina Debbi ha deciso di non inserire nell’edizione notturna del tg dell’8 dicembre la notizia, un fatto gravissimo che ostacola il dovere di completa e libera informazione del telegiornale di La7” danneggiando “l’immagine di imparzialità e professionalità della redazione” e alimentando “sospetti sui reali motivi della sospensione del programma”. Adalberto Baldini, del Cdr, disse: “Ogni volta che La7 fa un programma di successo, e Decameron, con punte di 2,7 milioni di spettatori, lo è, viene stoppato. Per la pubblicità le aziende, anche Rai e Mediaset, si contendono pure lo 0,1% di ascolti. E se un programma scompagina gli ascolti è meglio chiuderlo. La7 deve chiarirci che posizione vuole avere sul duopolio Rai-Mediaset.” Venduto ai pubblicitari per uno share stimato del 2,3%, Decameron aveva punte del 9% (al sabato notte, dove prima La7 faceva lo 0,8). La7 mi fece causa, accusandomi pure di plagio: perse e dovette risarcirmi. Secondo la sentenza, La7 aveva chiuso Decameron in modo arbitrario e illegittimo; la battuta su Ferrara non era insulto, ma satira; la battuta su Ferrara non era plagio. Peccato che tu non abbia potuto vedere le altre 5 puntate, Sergio: erano splendide e piene di risate. Per approfondire, c’è questa rassegna stampa curata da aficionados del vecchio blog: http://bit.ly/3gOPLgx.
FONTI
# 1
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