Contro il “politicamente scorretto” e altre tattiche reazionarie

di danieleluttazzi

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Invocare il politicamente scorretto è servito in questi anni a quanti (comici, giornalisti, opinionisti) volevano sdoganare impunemente le proprie espressioni razziste. Me ne sono occupato in diversi articoli, a partire da certi casi che hanno fatto scalpore, e che purtroppo furono commentati sui media a partire da luoghi comuni, i soliti, che sterilizzano il discorso invece di farlo progredire. Raccolgo qui alcuni di quegli articoli occasionali: sono strumenti per la battaglia culturale che si sta svolgendo in Occidente sui temi dell’inclusione e della discriminazione. Fatene buon uso.

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Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 20 aprile)

Striscia non chiede scusa perché è, e resterà, una trasmissione satirica e, come le trasmissioni satiriche e comiche di tutto il mondo, politicamente scorretta. (Ufficio stampa di Striscia la notizia, Ansa, 15 aprile)

La scenetta di Striscia con Gerry Scotti e Michelle Hunziker che fanno la caricatura dei cinesi dicendo L invece di R e mimando gli occhi a mandorla ha avuto una risonanza internazionale che ha sorpreso molti italiani: non abituati al discorso sul razzismo nei media, mostrano di ignorare che si può essere razzisti anche in modo involontario. Perfetta, quindi, la contrizione di Michelle (“Sono lungi dall’essere razzista, gli stereotipi si insinuano nella nostra quotidianità senza che ci accorgiamo della loro presenza e senza farci rendere conto che potrebbero essere dolorosi per qualcun altro. Ci abituiamo alla loro presenza e li normalizziamo. Ma ora stiamo imparando a cambiare. Tutti noi stiamo imparando, e sono lieta di poter cogliere l’occasione di cambiare anch’io. Quindi, di nuovo vi chiedo scusa. E vi prego di non odiare: tutti facciamo degli errori.”), in un video su Instagram che la mostra in total white, la divisa ufficiale delle pubbliche scuse worldwide.

   Purtroppo, chi ha difeso il programma ha banalizzato buttandola sulla “dittatura del politicamente corretto” e sul “diritto di satira”. Cerchiamo di sbrogliare la matassa, di cui fa parte anche un fatto emblematico: i giornali italiani hanno ricordato le minacce di morte ricevute dai due conduttori, ma hanno dimenticato quelle da cui è stato subissato Louis Pisano, il giornalista di Harper’s Bazaar che ha stigmatizzato su Instagram la gag di Striscia (shorturl.at/bqAOP). 

   Un discorso è “politicamente corretto” se non ghettizza per etnia, genere, orientamento sessuale, età, religione e disabilità: la locuzione, dunque, esprime un concetto nobile, ma nei Paesi multiculturali la destra se ne serve per derubricare a una questione di stile, da sbeffeggiare, sia le critiche sostanziali alle sue politiche reazionarie e discriminatorie, sia i giudizi contro il linguaggio che le formula, nel qual caso la destra inveisce contro la “polizia del pensiero”. Questa tendenza perniciosa, di cui l’ultimo esponente chiassoso è stato Trump, finisce per sdoganare comportamenti aberranti, come quelli contro cui è sorto il movimento di protesta #BlackLivesMatter. Una tattica sussidiaria dei reazionari, molto in voga sui social, invoca la “libertà di espressione”, come se ci fosse libertà di razzismo. I più sofisticati ricorrono a una frase di Ricky Gervais: “Solo perché ti sei offeso, non significa che hai ragione”. Giusto, ma l’argomento è reversibile: “Solo perché mi sono offeso, non significa che ho torto.” Razzismo e discriminazione, infatti, non riguardano l’atto di offendersi (che può essere più o meno giustificato: se l’esistenza dei gay ti offende, hai torto), ma il contenuto razzista e discriminatorio (che può essere giudicato tale in modo obiettivo, e può essere indipendente dalle intenzioni dell’emittente: se perculi i gay come esseri ridicoli, hai torto). Le idee, e la lingua che le esprime, si adeguano ai mutamenti della società: possono farlo in peggio, come durante il nazismo, o in meglio, come sta accadendo nelle democrazie occidentali grazie ai movimenti per i diritti civili. Oggi, per esempio, non sono più accettabili barzellette come questa, tratta da un’antologia stampata a New York nel 1921: “Un uomo di colore, benestante, si ammala, ma non migliora con le cure di un medico della sua stessa razza. Così chiama un medico bianco, che dopo un esame accurato gli domanda: “L’altro dottore le ha preso la temperatura?” Il malato scuote la testa: “Non lo so, signore. Mi pare mi manchi solo l’orologio.” 

(1. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 21 aprile)

Ieri abbiamo visto che si può essere razzisti involontari, quando la sociocultura in cui viviamo rende normali degli stereotipi discriminatori, che assorbiamo e ripetiamo senza dar loro peso. Sbaglia chi, accusato di razzismo per una gag, replica appellandosi al politicamente scorretto e alla libertà di satira: il razzismo non c’entra col politicamente corretto, e non c’è libertà di razzismo. Per essere nel merito, la risposta deve spiegare perché quell’occorrenza non è razzista: per esempio, la gag su Laura Boldrini, ripresa da Striscia, non è razzista poiché il linguaggio razzista messo in bocca al personaggio Boldrini, interpretato da Paolo Kessisoglu, che rispondeva alle domande di una voce fuoriscena (Luca Bizzarri), serviva a tratteggiare come fasullo il suo impegno umanitario. Si può trovare fessa quella satira su Boldrini, dato che la sua attività politica a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo è meritoria; e strumentale l’uso dello sketch come commento a una notizia relativa alle accuse mosse a Boldrini da alcune sue ex-collaboratrici; ma la gag di Giass non era razzista: dava della razzista a Boldrini (con divertimento sommo, immagino, dei leghisti, che non facevano mistero di disprezzare la sua politica inclusiva). 

   Fra le reazioni sbagliate all’accusa di razzismo, toccano il nadir gli insulti e le minacce di morte di cui è stato fatto bersaglio Louis Pisano, il giornalista di Harper’s Bazaar che ha stigmatizzato su Instagram la gag di Striscia (shorturl.at/bqAOP). Ne riporto alcuni campioni: “Sta’ zitto, negro”, “Il tuo culo negro cerca di vincere ogni evento delle Olimpiadi della vittima”, “Abbiamo la frocia permalosa”, “Che schifo mi fate con questo politically correct, veramente i soggetti come @louispisano dovrebbero essere eliminati dalla faccia della terra”, “beduino ignorante”, “sei una povera scimmia stupida, grazie a dio la gente come te non può riprodursi”, “Se avessi 1 pistola ti sparerei. Merda”, “Sei lo scarto del mondo: nero, gay e francese. Ma muori”, “Vai a fanculo ricchione”, “Sei proprio un negro di merda frocio”, “se muori stappo”.  

   Le altre reazioni sbagliate che ho letto sono fallacie induttive (cfr. Ncdc 4 settembre):

“E allora Charlie Hebdo? Ha preso in giro gli italiani morti nel terremoto!”: infatti sbagliò anche Charlie Hebdo. Gli italiani che s’indignarono per quella vignettaccia ne avevano tutte le ragioni. La satira è un giudizio innanzitutto su chi la fa, e ogni reazione dipende dalla propria ideologia e dalla propria cultura: se ti piace chi sfotte le vittime invece dei carnefici, per esempio, non sei di sinistra (cfr. Qc # 9); 

“Tutto il mondo prende in giro noi italiani con pizza pasta mandolino mamma mia, mica ci offendiamo”: il problema non è che uno si offende, ma che si è razzisti;  

“Era una gag innocente, per ridere”: purtroppo, le gag che rafforzano gli stereotipi razzisti hanno come conseguenza quella di banalizzare il razzismo, col risultato, per esempio, che a scuola i bulletti umiliano certi compagni ripetendo a sfottò i tormentoni, apparentemente innocenti, di questo o di quel comico tv; 

“Anche Totò recitò in blackface: ma era un’altra epoca, e infatti oggi per fortuna non potrebbe farlo, perché è una gag razzista. (Vanno cancellate dunque le opere razziste del passato? No, questa è revisionismo stupido, poiché impone al passato i parametri contemporanei.)  Sensibilizzare sul problema, come fanno i movimenti per i diritti civili, aiuta insomma tutti quanti a migliorare questo stato di cose. Sembrano argomenti lapalissiani, eppure anche menti brillanti sono cadute nella trappola giustificazionista, come vedremo. (2. Continua) 

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 22 aprile)

La gag di Striscia con Gerry Scotti e Michelle Hunziker che facevano la caricatura dei cinesi è stata accusata di razzismo anche da Diet Prada, uno degli account di moda più temuti su Instagram: quando criticò come razzisti tre spot pubblicitari di Dolce & Gabbana (shorturl.at/bkquN), seguirono boicottaggi in Cina, scuse goffe di Dolce & Gabbana (shorturl.at/syH29), e una denuncia per diffamazione di questi a Diet Prada. Il testo con cui Diet Prada accompagna la foto della gag di Scotti e Hunziker (shorturl.at/fpBHT) riassume la gag e la biografia dei conduttori, ai quali dà atto di aver difeso i diritti femminili e LGBTQ; e ricorda la discriminazione subita dalla comunità cinese in Italia durante la prima ondata di Coronavirus. (Negli Usa, dove Trump chiamava il Coronavirus “China virus”, l’uccisione di sei donne asiatiche che lavoravano in alcune spa di Atlanta, un anno fa, fu attribuito al crescente razzismo anti-cinese post-Covid: ne nacque il movimento mondiale di protesta #stopasianhate. Il clima di paura è ben espresso da una recente copertina del New Yorker: shorturl.at/anEIO. Questo contesto rende la gag di Striscia intollerabile per gli osservatori stranieri.). Fra le repliche sbagliate all’accusa di razzismo va inclusa quella dell’Ufficio stampa di Striscia (“Striscia non chiede scusa perché è, e resterà, una trasmissione satirica e, come le trasmissione satiriche e comiche di tutto il mondo, politicamente scorretta. Scorretta, ma non quanto le iniziative pretestuose di chi pensa di ricattare aziende e marchi internazionali.”): il razzismo non c’entra col politicamente scorretto, ma con la legge, poiché è un reato; neppure la satira ha libertà di razzismo; e replicare col tu quoque è una classica fallacia induttiva (cfr. Ncdc 4 settembre).

   In Italia, il discorso sul razzismo nella comicità e nella satira è fermo all’analisi del periodo coloniale, ma andrebbe aggiornato, se non altro per rendere meno frequenti gli episodi di razzismo involontario, che i razzisti volontari sono ben felici di utilizzare per la loro propaganda tossica. Perpetuare uno stereotipo non contrasta lo stereotipo, e incoraggia chi lo condivide. Penso alle polemiche inadeguate che accompagnarono il trailer del film Tolo Tolo (shorturl.at/gwG12) realizzato da Luca Medici. Chi ne parlò, sia dicendo “il trailer non fa ridere perché è razzista”, sia dicendo che “il trailer fa ridere e non è razzista”, commise il medesimo errore, che purtroppo è frequente: confondere la tecnica della gag, che fa scattare la risata, con il contenuto della gag, che puoi non condividere affatto. La risata, quando provocata a dovere da certi grilletti, scatta come un riflesso. Il giudizio sul suo contenuto viene subito dopo, se siamo persone che si interrogano sugli avvenimenti. Quando il contenuto è per noi intollerabile, giudichiamo negativamente la risata, tanto da spegnerla all’istante, con disappunto. Un contenuto ci è intollerabile in almeno tre casi:   

1) Il contenuto attacca un nostro pregiudizio. Ottimo, su questo si fonda la funzione liberatoria della satira: demolire quei pregiudizi (psicologici, sociali, religiosi, politici &c.) che ci chiudono al rapporto con l’altro facendocelo considerare inferiore a noi, in quanto “altro da noi”. Sono pregiudizi razzisti, nella accezione estesa che ne dava Pasolini (anche il maschilismo è una forma di razzismo: razzismo contro le donne). Se una gag sfotte un nostro pregiudizio, lì per lì non ne ridiamo; ma col tempo, magari, capiamo che quella gag aveva ragione, e che eravamo stupidi a pensarla in quel modo. (Per contro: quando una gag vellica un nostro pregiudizio, ridiamo contentissimi, come i fascisti agli sfottò su Anna Frank.) (3. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 27 aprile)

La settimana scorsa, dalle polemiche sulla gag di Striscia, accusata di razzismo, siamo passati ad analizzare perché si fatichi a individuare il razzismo, anche involontario, nella comicità. Il motivo è che si confonde la tecnica della gag, che fa scattare la risata come un riflesso, con il contenuto della gag, che puoi condividere o meno. Si danno almeno tre casi:

1) Il contenuto attacca un nostro pregiudizio. Lì per lì spegniamo la nostra risata, ma su questo si fonda la funzione liberatoria della satira: col tempo, magari, capiamo che quella gag antirazzista aveva ragione. (Per contro: quando una gag vellica un nostro pregiudizio, ridiamo contentissimi, come i fascisti agli sfottò su Anna Frank.) 

2) Il contenuto attacca una nostra convinzione nobile, per esempio quella che ci apre al rapporto con l’altro, facendocelo considerare uguale a noi: se una gag sfotte questa convinzione nobile, il nostro giudizio sulla risata che ci ha fatto fare è negativo, e tale resterà nel tempo. (Per contro: quando una gag vellica una nostra convinzione nobile, ridiamo contentissimi.) 

3) Il contenuto mente (con parole, con immagini, con omissioni). E’ il caso peggiore: se una gag dice il falso, fa ridere solo chi gode a propalare quella falsità, e chi non s’avvede della truffa.

   Il punto non è se una gag fa ridere o meno. Si ride infatti per il meccanismo comico, che scatena il riflesso della risata; ma se la tua gag veicola un’idea razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no); se ridi a una gag razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no).   

   Torniamo al trailer del film Tolo Tolo, il video della canzone “Immigrato” con protagonista Checco Zalone (shorturl.at/gwG12). Aristotele, nell’Etica, individua quattro tipi di personaggi comici: dissimulatori (eirones, per esempio il servo scaltro), impostori (alazones, per esempio il millantatore), buffoni (bomolochoi) e bifolchi (agroikois).   L’immigrato del video è un eiron, mentre Checco Zalone (“che cozzalone” in barese sta per “che tamarro”) è un agroikos. Sono agroikoi anche i personaggi di Totò e Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina; i burini nei film di Vanzina; Ivano (Verdone); Cetto La Qualunque (Albanese); e Pio & Amedeo (che sono due Checco Zalone). Il genere in cui eccelle Luca Medici è la parodia musicale, spesso a base di doppi sensi, secondo la tradizione dell’avanspettacolo e della goliardia. Guardando il video, si ride della situazione comica (l’agroikos vittima dell’eiron) e della tecnica parodistica (Celentano/Cutugno). Situazione comica e parodia fanno scattare la risata. Passiamo al plot. Nel video, Luca Medici presenta Checco Zalone come vittima di un immigrato. Il problema è qui, nell’affrontare temi sociali rilevanti (la rilevanza psicologica della gag potenzia la risata) in modo qualunquista (a volte ci casca anche Sacha Baron Cohen con Borat). Se la gag che mette in scena una disuguaglianza ne colpisce i responsabili (come fa Albanese con Cetto La Qualunque), è satira; se invece fai passare per vessatore un immigrato (che nella realtà del sud Italia è costretto a subire caporalato e sfruttamento schiavista), hai fatto il razzista (il video di Luca Medici, non a caso, piacque a Meloni e Salvini). A ragione, l’associazione Baobab giudicò razzista quel video, ma sbagliò dicendo che quel video non fa ridere: confuse il giudizio sul contenuto col giudizio sulla tecnica. Fecero lo stesso, pro domibus suis, Meloni (“La canzone ‘Immigrato’ è divertente”) e Salvini, che la buttò anche lui sul “politicamente scorretto”, come se ci fosse libertà di razzismo. (4. Continua)  

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 28 aprile)

Ancora sul trailer di Tolo Tolo (shorturl.at/gwG12) e sulla difficoltà di individuare il razzismo, anche involontario, nella comicità. Quel video fa ridere, e molto. “Il guaio” spiega il mio barbiere, che da giovane organizzava cineforum a Genova “è che sfoga sull’immigrato la rabbia di tanti per una situazione di cui, invece, è responsabile l’Occidente neo-liberista. Guerre e spoliazioni territoriali hanno creato altrove condizioni di vita impossibili, rendendo l’immigrazione una necessità. Quel video accusa l’immigrato di romperci i coglioni, e lo fa passare per un furbacchione: lo vediamo sorridere compiaciuto a ogni sua impresa contro Zalone, e arriva a sedurne la moglie, peraltro consenziente: razzismo etnico più razzismo maschilista. Il trailer presenta Checco Zalone, cioè l’italiano evocato dalla parodia musicale di Cutugno, come una vittima. Non mi stupisce, perciò, che quel video sia piaciuto alla destra. Capezzone: ‘A quelli di Baobab, che hanno strillato contro Zalone, lo dico come lo direbbero a Cambridge: Ci avete rotto i coglioni. Lasciateci sorridere.’. Non mi stupisce nemmeno che sia piaciuto ai pidini, correi della proto-salviniana soluzione Minniti in Libia. A un certo punto, la ‘vittima’ Zalone chiede all’immigrato perché tormenti lui, e non gli altri immigrati. L’immigrato risponde: ‘Prima l’italiano’.” “Fa ridere.” “Ma è un contributo ulteriore al ritratto dell’immigrato come furbacchione: è tanto furbacchione che sfotte la sua vittima, ci dice il video. Una vittima fittizia (Checco Zalone), con cui Luca Medici percula le vittime vere di una tragedia sociale che ha tanti colpevoli e tanti complici, felici finalmente di auto-assolversi con la risata offerta dal comico.” “E la gag dove Checco Zalone è così esasperato che imita Mussolini a palazzo Venezia?” “Anche qui, l’irritazione dell’italiano non viene criticata, viene condivisa. Se il modo è quello di Enrico De Seta, anche il risultato è lo stesso.” (De Seta, nel ventennio, fu l’autore di vignette razziste dalla grafica eccelsa: shorturl.at/kGLN7). 

   In un’intervista esclusiva a Vanity Fair (magazine oggetto di un product placement nel film), Medici commentò le polemiche con affermazioni che avvaloravano i soliti equivoci: “Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire ‘questo si può o questo non si può dire’”. (Chi fa comicità e satira è libero di dire ciò che vuole, ma deve assumersene la responsabilità. Criticare il risultato non è “alzare il ditino moralizzante”. La replica a una critica argomentata va fatta nel merito: se ti accusano di aver realizzato un video razzista, spiegando perché, tu devi spiegare perché, secondo te, non lo è.) “Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti.” (La replica a una critica argomentata va fatta nel merito, non accusando ad hominem, altrimenti si contribuisce alla povertà del dibattito di cui ci si lamenta.) “Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto.” (Il razzismo non è “politicamente scorretto”, è un reato. Non esiste la libertà di razzismo.) “Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente.” (Ma nessuno ha il diritto di essere razzista, neanche per sbaglio, e neanche se piace molto.) “Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertentissimo.” (Se vuoi attaccare il razzismo, ma ricevi gli elogi da parte di Meloni, Salvini e tutti i media di destra, che per gli stessi motivi oggi esaltano il “politicamente scorretto” di Pio & Amedeo su Mediaset, qualche domanda devi fartela. Per la risposta, vedi sopra.) (5. Continua) 

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 29 aprile)

Continuiamo il discorso sul razzismo (anche involontario) nella comicità. Commentarono negativamente il trailer di Tolo Tolo l’economista Giuliano Cazzola (“Nella clip c’è un’offesa agli stranieri in Italia. Rappresentare il problema degli immigrati con una caricatura è sbagliato.”), l’attore Giulio Cavalli (“La satira attacca i potenti. Attaccare gli indifesi, i poveracci, i disperati, in questo caso gli immigrati, come in un altro film di Zalone gli omosessuali, non è satira.”) e il costituzionalista Roberto Zaccaria (“La satira si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli. Il trailer del film è una giustificazione del razzismo, direi quasi un’istigazione al razzismo. Il grande successo mi sembra un’aggravante, purtroppo.”). Imprecisa, invece, l’evocazione da parte di Cazzola della “canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei” cantata al Tingel-Tangel, un cabaret berlinese, all’epoca della Germania di Weimar. Quella canzone (An allem sind die Juden schuld, alla lettera “La colpa di tutto è degli ebrei”: shorturl.at/dgrMX) non prendeva in giro gli ebrei: era una satira feroce contro i nazisti che accusavano gli ebrei di ogni nefandezza. Divenne famosissima, ed era cantata dagli anti-nazisti. Il testo, paradossale, sostiene che “Se piove e se fa freddo / se il telefono è occupato / se la vasca da bagno perde / se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi / se il principe di Galles è un finocchio / se la Garbo ha un dente cariato / è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei.” Il brano parodiava l’Habanera della Carmen di Bizet (“Tutto l’amore viene dai gitani”) e ne conservava la musica, ad accentuare l’assurdità della canzone, che, nella rivista satirica di cui faceva parte (“Fantasmi a villa Stern”), era cantata da un personaggio nazista. Autore di tutto, il compositore ebreo Friedrich Hollaender, gestore del Tingel-Tangel. Scrisse canzoni per Marlene Dietrich, fra cui due delle più struggenti che abbia mai ascoltato in vita mia: Ich weinicht, zu wem ich gehöre (shorturl.at/ikvLW) e Eine kleine Sehnsucht (shorturl.at/beLOZ). La tecnica della gag di Hollaender (quel testo, su quella musica, cantato da un nazista) fa ridere satiricamente contro i nazisti. La tecnica del trailer di Luca Medici fa ridere prendendo per il culo gli immigrati: molti italiani lo trovano normale, e se la prendono con chi obietta. Altri, invece, sono sveglissimi. Commentando la gag di Striscia sui cinesi, il giornalista M.B. (non importa chi sia, mi colpisce il suo modo sbilenco  di ragionare, che è frequente) ha twittato: “Una mia zia nel 1968 andò a visitare il Giappone. Alla base del monte Fuji dei bambini che non avevano mai visto degli occidentali ridevano schiacciandosi gli occhi per farli a palla. Ridere delle differenze e di ciò che conosciamo poco è un modo per non averne paura. In più effettivamente i cinesi parlano italiano con la L al posto della R, e noi in cinese non diciamo niente di giusto mai. Si potrebbe fare così: parlarsi poco per evitare di offendersi, non scherzare, non discutere, non confrontarsi. Per alcuni è rispetto. Per me no. Se non rido mai di qualcuno è perché non me ne frega niente, non voglio averci a che fare, mi è indifferente o mi disgusta. Meno rispetto, più curiosità. Meno orgoglio, più serenità. Il mondo è grande e sempre più multiforme: se ci smolliamo tutti un po’ secondo me è meglio. FINE Scusate. Postilla. Non guardo Striscia e Iene da molti anni per scelta. Sono certo che fosse una brutta battuta.” Le repliche non si sono fatte attendere, e tutte micidiali. Marina: “Ma che significa?” Giannizzero: “Che siccome due bambini hanno preso per il culo sua zia 50 anni fa, allora vale tutto.” (6. Continua)  

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 30 aprile)

Commentando la gag di Striscia sui cinesi, il giornalista M.B. (non importa chi sia) ha twittato: “Una mia zia nel 1968 andò a visitare il Giappone. Alla base del monte Fuji dei bambini che non avevano mai visto degli occidentali ridevano schiacciandosi gli occhi per farli a palla. Ridere delle differenze e di ciò che conosciamo poco è un modo per non averne paura. In più effettivamente i cinesi parlano italiano con la L al posto della R, e noi in cinese non diciamo niente di giusto mai. Si potrebbe fare così: parlarsi poco per evitare di offendersi, non scherzare, non discutere, non confrontarsi. Per alcuni è rispetto. Per me no. Se non rido mai di qualcuno è perché non me ne frega niente, non voglio averci a che fare, mi è indifferente o mi disgusta. Meno rispetto, più curiosità. Meno orgoglio, più serenità. Il mondo è grande e sempre più multiforme: se ci smolliamo tutti un po’ secondo me è meglio. FINE Scusate. Postilla. Non guardo Striscia e Iene da molti anni per scelta. Sono certo che fosse una brutta battuta.” Le repliche a questa generalizzazione demenziale non si sono fatte attendere. Adriano: “Ma che paragone è? Pure tu con il reverse racism? Uno è uno sfottò di un bambino verso una signora che non ha mai subito discriminazione per avere gli occhi tondi. L’altro è una stereotipo razzista usato per denigrare una comunità discriminata da sempre (in occidente). E’ l’abc.” Giulia: “Eh Matteo perché infatti non c’è NESSUNA differenza tra dei bambini e degli adulti che lavorano in una tv nazionale con un programma che va in onda in prima serata NESSUNA.” Andrea: “Ma poi metterei il focus sul fatto che hanno il cazzo piccolo, fa molto più ridere e infonde ottimismo in noi caucasici.” Davide: “Ci dispiace tanto per il razzismo subito da tua zia. Chiedile se vuole spiegarmi cosa sia il razzismo, grazie.” Mauro: “Le stesse battute fatte da persone diverse cambiano significato. Se sei per strada e ti chiamano “ehi spaghetti” è diverso se è il tuo vicino di casa vegano o un neonazista.” Simona: “Se vuoi ridere dei difetti degli altri devi riderne con loro, non di loro.” Focafica: “Hai dimenticato la parte finale dove ci riveli che sei ironico ed è tutto uno scherzone.” Emanuele: “Sembra il classico aneddoto inventato della zia razzista.” Ugo: “Quindi se uno si comporta come un bambino educato 60 anni fa, ha ragione. Ok.” Stephanie: “Anche se vai in Africa trovi bambini che sono incuriositi dal colore della nostra pelle e dei nostri capelli, perché siamo diversi da loro, ma la differenza è che non vivi discriminazioni. Se vivi discriminazioni per quello, fidati che non ridi.” John: “I bambini giapponesi degli anni ’60 cresciuti (immaginiamo) in un contesto rurale hanno la stessa consapevolezza e quindi i loro gesti hanno lo stesso peso di due adulti con almeno 30 anni di carriera alle spalle in prima serata su una delle emittenti più importanti in Italia.” Anna: “Mi pare sia appurato che gli asiatici abbiano gli occhi a mandorla e che non pronuncino la r come noi. C’è bisogno di fare questi siparietti offensivi per esorcizzare ‘quello che non conosciamo’? Seriamente?” Snakebyte: “Immagino che ora ti sei sentito vendicato.” Michela: “Giustificare i comportamenti di persone adulte con ‘ma i bambini lo fanno’ è una delle argomentazioni più idiote che ho letto.” Meinewage: “Quindi, dato che i neri sono neri, la ‘black face’…” Porno: “Vieni a ridermi in faccia prendendomi in giro per il mio aspetto e giocando su stereotipi vecchi di secoli e vedi quanti calci in culo ti prendi.” Gaetano: “Non guardi Striscia. Quindi da dove origina tale riflessione?” Dario: “La banalità del boh. Fine.” Ma M.B. è in buona compagnia: sul tema ha preso un granchio anche John Cleese, come vedremo. (7. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (sabato 1 maggio)

Abbiamo visto come sia facile prendere abbagli quando si giudica la comicità. I comici di professione non ne sono immuni, sia perché non sono ferrati sulla teoria, e quindi dicono cazzate; sia perché tendono a giustificare tutto con il criterio della risata: benché sia essenziale per il successo di un comico, la risata non è un criterio di giudizio sui contenuti, dato che si ride come per riflesso, e si evita di ridere per i motivi più diversi. La sensibilità di oggi, più rispettosa verso le differenze, induce le produzioni a premettere disclaimer ai film di epoche trascorse, per avvisare gli spettatori sugli anacronismi culturali divenuti inaccettabili (in Via con vento, per esempio, un’introduzione ricorda che il film rappresenta il Sud degli Stati Uniti come se non fossero esistiti gli orrori della schiavitù); e a scegliere doppiatori della stessa etnia dei personaggi. Negli Usa, spiega Hari Kondabolu, autore del documentario “Il problema con Apu” (shorturl.at/sCEIM), da 30 anni chi viene dall’India è spesso schernito con riferimenti ad Apu Nahasapeemapetilon, un personaggio dei Simpson, per doppiare il quale Hank Azaria, attore americano di origine ebraica, imitava Peter Sellers che imitava un indiano in Hollywood Party (shorturl.at/admBJ). Azaria si è pentito di aver contribuito agli stereotipi razzisti su chi proviene dall’India: “Parlavo con dei ragazzi indiani nella scuola di mio figlio, volevo avere una loro opinione. Un 17enne, che non ha mai visto i Simpson, sa però cosa significhi Apu. Praticamente è soltanto un insulto. Tutto quello che sa è come la sua gente viene vista e rappresentata in questo Paese. Chiedo scusa per questo.” Il commento di John Cleese al pentimento di Azaria è stato un passo falso, nel nuovo contesto contemporaneo. Con sarcasmo, Cleese ha twittato: “Non volendo essere superato da Hank Azaria, vorrei scusarmi a nome dei Monty Python per tutti gli sketch in cui abbiamo preso in giro gli inglesi bianchi. Siamo spiacenti per qualsiasi dispiacere potremmo aver causato.” Ma le battute di Richard Pryor sui nigger, legittime, se fatte da Woody Allen sarebbero razziste. L’anno scorso, Cleese si era scagliato contro il politically correct, che secondo lui soffoca la creatività comica perché “devi fare attenzione alle parole che puoi o non puoi usare.” (No, le puoi usare tutte, ma non per fare del razzismo.) “Essere gentili diventa una sorta di indulgenza verso le persone ipersensibili, che si offendono più facilmente.” (No, l’offendersi non è un criterio. Si tratta di non essere razzisti, e di replicare alle critiche nel merito.) Poi, siccome negli Usa chi è consapevole delle ingiustizie sociali è detto “woke”, Cleese ha aggiunto: “Non so come potrebbe essere una battuta ‘woke’, a parte persone che sono gentili le une con le altre. Sarebbe toccante, ma non molto divertente.” Strano che dica così, dato che le gag surreali dei Monty Python erano già “woke”, cioè non razziste e non ingiuste (shorturl.at/vIL56). Ma Cleese ha in testa un’equivalenza sbagliata (woke = non offensivo) che lo fa sragionare. Di qui la sua stupida battuta su Azaria, come se la discriminazione della minoranza indiana e il privilegio degli “inglesi bianchi” fossero paragonabili. Cleese: “Occorre capire che le parole dipendono dal contesto.” Ovvio, ma una gag razzista degli anni ’20 è razzista anche oggi. Il contesto non cambia il razzismo delle espressioni: ne cambia la percezione. Negli Usa, alcune nuove sitcom sugli immigrati (Pen15, Ramy) non usano stereotipi razzisti (come il cliché dell’immigrato represso che ambisce all’American way of life): scritte e interpretate da immigrati, trattano dei loro problemi reali (Noor, 2021). E’ una grande conquista. (8. Fine)

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Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 4 maggio)

E’ l’intenzione dietro alle parole che le rende buone o cattive. (George Carlin, 1990)

Non è l’uso della parola il problema, ma l’intenzione della parola. (Pio & Amedeo, 2021)

Se le cose fossero davvero così semplici, il problema della violenza verbale (dagli sfottò su orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, agli epiteti razzisti) sarebbe stato risolto da un pezzo. In realtà, l’argomento di Carlin, ripreso da Pio & Amedeo per sostenere un siparietto di 20 minuti contro il politically correct nell’ultima puntata di Felicissima sera (Canale 5), è sbagliato, perché non esistono parole neutre, prive di connotazione. Ogni parola, ci dice la semiotica contemporanea, richiama dei frame, le scene di cui può far parte (cfr. Qc # 50). E la storia di certe parole le ha connotate di significati discriminatori: puoi usarle in modo neutro solo fra amici; se apostrofi chi non conosci con parole discriminatorie, stai esercitando una violenza, anche se non ne hai l’intenzione. 

   I comici prendono spesso la via del paradosso, e un tipo di paradosso è basato sulla definizione incompleta: il suo metodo consiste nello sminuire il significato di una cosa, descrivendola con uno solo dei mille elementi che la determinano, per dimenticare volutamente tutti gli altri, come fa Chamfort dicendo: “Il sesso non è che lo sfregamento fra due mucose.” Un conto è usare questo metodo per far ridere, ma servirsene come base per un discorso serio non può che banalizzarlo. In molti, per fortuna, hanno notato il tentativo assurdo dello sketch di Pio & Amedeo: spostare la soluzione della violenza verbale su chi la subisce (questi dovrebbero “riderne”). Fa il paio con l’altra assurdità notata, quella di due artisti privilegiati che, in prima serata, spiegano a minoranze e gruppi discriminati come dovrebbero comportarsi per far sparire magicamente il problema della violenza verbale di cui sono fatti oggetto. Contro la violenza verbale, discriminatoria, che sempre più spesso si accompagna a quella fisica, interviene per ora solo la riprovazione sociale, di cui il politicamente corretto è una manifestazione. Non a caso, l’attacco contro il politicamente corretto viene dalle destre, poiché la propaganda tossica di destra contro le minoranze strumentalizza lo spazio del discorso democratico che, non presidiato da leggi, è sottoposto alla sola riprovazione sociale. Così, in questi anni, la destra ha fatto propaganda tossica esprimendo impunemente i propri pregiudizi discriminatori in nome di una malintesa libertà di espressione. Poiché la legge interviene solo in certi casi (la legge Mancino sanziona e condanna la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici,  religiosi o nazionali), il politicamente corretto serve a rendere responsabili coloro che esprimono pregiudizi discriminatori anche di altro tipo, affinché non lo facciano nel silenzio generale, che alla lunga diventa assenso. In altri termini, il politicamente corretto prosciuga le acque della propaganda tossica discriminatoria. E’ una buona cosa, ma non basta più: lo si è capito con le violenze contro omosessuali e trans, che sono aumentate dopo il 2016, l’anno dell’approvazione della legge sulle unioni civili. Le leggi seguono i mutamenti sociali: ne stiamo attraversando uno. Serve una legge come il ddl Zan, cioè una legge che difenda i cittadini appartenenti a minoranze e gruppi da discriminazioni e violenze fondate su orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Purtroppo, il fatto che siano al governo anche quelle forze che hanno applaudito l’attacco di Pio & Amedeo al politically correct non fa ben sperare. (1. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 5 maggio)

I personaggi creati dai comici Pio D’Antini e Amedeo Grieco, Pio & Amedeo, sono due agroikoi, dicevamo, cioè due Checco Zalone. Il loro sketch contro il politically correct procede per gag che sono composte, come ogni gag, da una premessa e da una battuta.  Le premesse usate da Pio & Amedeo sono una sfilza di argomenti falsi. Vediamoli uno per uno.

“Non è l’uso della parola il problema, ma l’intenzione della parola.”. Solo che non ci sono parole neutre, e quelle che rimandano a discriminazioni, passate e presenti, sono discriminatorie, indipendentemente dalle intenzioni di chi le dice. Oggi contano più le parole che il significato che ci metti dentro.”. Ma non la decidi tu, la storia discriminatoria che una parola si porta dentro. Oggi non si può dire più niente.”. No, si può dire tutto, ma senza discriminare il prossimo per motivi razziali, etnici, religiosi. Il ddl Zan estende giustamente questo divieto ai motivi sessuali, di orientamento sessuale, di identità di genere e di disabilità. Perché uno dovrebbe poter discriminare gli altri impunemente? “Dobbiamo poter scherzare su tutto senza freni!”. Davvero? Anche scherzare su vittime vere di carnefici veri? Schierandoti cioè coi carnefici? Per esempio perculando Anna Frank o don Pino Puglisi? Non credo proprio. “Io voglio che negro faccia la fine di terrone. Nel senso della parola. All’inizio era dispregiativo. Appena abbiamo sfoderato l’autoironia noi terroni è quasi diventato figo dirlo.”. Anche oggi ‘terrone’ è un insulto, se lo dici a chi non conosci. Poi, se un determinato insulto è figo non sta a te deciderlo, ma alla vittima dell’insulto. Infine, auspicare l’autoironia della vittima lascia intatto il comportamento del violento, ovvero è una banalizzazione del problema: creato dal violento, non dalla vittima. L’avarizia degli ebrei è un luogo comune. Scherziamoci su.”. Ma perpetuare uno stereotipo non contrasta lo stereotipo, e incoraggia chi lo condivide. Le gag tv che rafforzano gli stereotipi razzisti hanno come conseguenza quella di banalizzare il razzismo, col risultato, per esempio, che a scuola i bulletti umiliano certi compagni ripetendo a sfottò i tormentoni, apparentemente innocenti, di questo o di quel comico tv. Vedi “Il problema con Apu” (shorturl.at/sCEIM). Va condannata la cattiveria.”. Ma un cattivo potrebbe sempre giustificarsi con l’altro tuo argomento, e dirti che hai frainteso la sua intenzione. E che sei pure poco autoironico, dato che, giustamente, t’incazzi. Ci sono parole che non si possono dire in televisione.”. Giusto: in base alle fasce orarie, per proteggere i bambini. Nelle altre fasce orarie, e senza discriminare il prossimo, dovresti poter dire tutto (anche se c’è ancora chi non riesce a rientrare in Rai per fare il talk-show che faceva con successo, essendone stato bannato 20 anni fa dopo un editto di Berlusconi, il padrone della tv concorrente che trasmette Felicissima sera). Mica tu ti offendi se dico che i neri ce l’hanno più grande del tuo?”. Ma il problema non è l’offendersi, è il discriminare. E il non banalizzare temi rilevanti con stereotipi e stupidera. “Per qualcuno che l’ha frainteso da casa, io chiedo scusa a tutte le donne, le donne sono sensibili.” “Che ho detto?”. Avete appena detto che il problema è di chi è sensibile e fraintende. Ci resta un’unica soluzione: l’autoironia.” No: l’autoironia non è una soluzione perché solleva i violenti dall’obbligo sociale e morale di non essere violenti. Una risposta migliore è una legge che obblighi finalmente i violenti ad assumersi la responsabilità di comportamenti che, poiché non sanzionati, continuano a vessare vittime. Ovviamente non basta: serve altro, come vedremo. (2. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 6 maggio)

Le gag sono composte da una premessa e da una battuta. Ieri abbiamo visto che le premesse usate da Pio D’Antini e Amedeo Grieco per lo sketch dei loro personaggi Pio & Amedeo contro il politically correct sono una sfilza di argomenti falsi. Quanto alle battute, abbiamo già visto (Ncdc, 27 aprile) che il punto non è se una gag fa ridere o meno. Si ride infatti per il meccanismo comico, che scatena il riflesso della risata; ma se la tua gag veicola un’idea razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no); se ridi a una gag razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no). Nello sketch in questione, mentre le premesse false stabiliscono, sbagliando, che razzismo e omofobia non stanno nelle parole, ma nella testa di chi le usa (invece stanno sia nella testa che nelle parole, poiché queste hanno una storia che contribuisce al loro significato), le battute a suffragio di quelle tesi false limitano gli esempi a contesti particolari, come l’uso ingiurioso di epiteti fra amici (“Io ho un amico a Foggia, Lorenzo. Ogni volta che arriva il conto si inventa la telefonata, deve andare al bagno, uh, ho il portafoglio a casa. Lo chiamiamo Lorenzo l’ebreo.” ) e le  epoche in cui il razzismo non era avvertito (“Abbiamo cantato Edoardo Vianello: ‘Siamo i Watussi. I piccoli negri.’ Ma mo’ Edoardo Vianello è razzista? Quel povero signore di 90 anni, ma che ha fatto?”). In questo modo, l’argomento creato (esempio particolare, tesi falsa generale: “chiamiamo il nostro amico tirchio ‘Lorenzo l’ebreo’, quindi possiamo dare dell’ebreo a tutti i tirchi”) è una classica fallacia induttiva, la generalizzazione indebita. Che va bene per far ridere, ma in un discorso sui temi rilevanti del razzismo e della discriminazione fa il gioco dei violenti. Come se non bastasse, il modus operandi di D’Antini e Grieco è lo stesso che inguaia il trailer di Tolo Tolo (Ncdc, 23 aprile) e certe gag del film Borat (non a caso, tutti osannati dalle destre): l’ambiguità con cui gli attori condividono la posizione dei loro personaggi. Questa ambiguità non c’è quando comici come Albanese e Stephen Colbert interpretano i loro personaggi reazionari: la presa di distanza fra attore e personaggio è resa in modo netto. Infatti i reazionari non applaudono Albanese e Colbert, come invece fanno con Pio & Amedeo, Zalone e Borat. 

   Chi ha difeso quello sketch ha usato la stessa fallacia induttiva di D’Antini e Grieco: prendere esempi da contesti limitati (“Anche i gay usano fra loro la parola frocio”, “Paolo Isotta voleva essere chiamato ricchione” “Allora anche Totò e Walt Disney erano razzisti e discriminavano”): questi esempi non giustificano che oggi tu possa dare del frocio e del ricchione a chi non conosci, o possa fare scenette in blackface. La prova dell’errore di generalizzazione di quello sketch è nelle reazioni indignate che ha suscitato. Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma: “Non è vero che il problema sia l’intenzione che si mette, il tema sono le parole per il significato che assumono e per ciò che contribuiscono a creare nell’ambiente in cui viviamo. Le parole sono il preludio della violenza, perché per esempio le cronache sono ancora piene di notizie di persone omosessuali insultate e poi aggredite, di chi ha un colore diverso della pelle che è costretto a subire razzismo e intimidazioni. Questa è la difesa della libertà di tutti, non razzismo al contrario o difesa di alcune minoranze. Anche quella di un bambino del sud che si trasferisce al nord e non deve accettare gli insulti contro i meridionali solo perché così hanno deciso Pio e Amedeo. Chi difende la licenza a insultare non difende la libertà d’espressione, ne limita l’esercizio a chi è vittima della violenza.” (3. Continua)  

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 7 maggio)

Abbiamo visto come degli errori semiotici, retorici, logici e pragmatici portano lo sketch di Pio & Amedeo a una conclusione aberrante (la soluzione della violenza verbale spetterebbe a chi la subisce: questi dovrebbe “riderne”). La prova dell’errore di quello sketch è nelle reazioni indignate che ha suscitato.

Milena Santerini, coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo: “Le parole sono già fatti. Additano gli ebrei come fossero tutti uguali, un’intera categoria di avari: il primo passo per spogliare le persone della loro individualità e esporle al pregiudizio. Soprattutto, ricalcano i vecchi schemi delle offese antisemite, dimenticando o ignorando che proprio attraverso questi insulti si riesce a colpire le persone in quanto tali; dimenticando quanto parole banali, stereotipate e offensive creino una realtà di discriminazione, che divide ‘noi’ da ‘loro’, e che porta e ha portato, quella sì, sicuramente alla violenza nei ‘fatti’.”. 

Fabrizio Marrazzo, portavoce del partito Gay: “Con una risata non si possono seppellire anni di discriminazione: ‘ricchione’ al sud significa persona che non può procreare, è una parola molto pesante e offensiva, c’è un ragazzo che rispondeva sempre col sorriso a questo insulto, poi ha preso una corda e si è impiccato. La risata di chi subisce l’insulto non è contentezza, ma è per non mostrarsi deboli. Devono essere garantiti i diritti delle persone, non si può far passare che l’insulto è qualcosa di banale che si stempera con una risata. Perché queste frasi vanno a seminare un odio che poi sfocia nell’isolamento e nella depressione. Anche personalmente, sentirsi chiamare ricchione, o qualcos’altro, non è mai una sensazione positiva, se stai vivendo una situazione personale con il tuo compagno e ti senti apostrofare così. Non sono cose che divertono. In privato con un amico fai quello che vuoi, ma in televisione in prima serata col 3% di share non è accettabile. Pio e Amedeo hanno fatto una stupidaggine e mi auguro che ritornino sui loro passi, e non si schierino con un partito come quello di Salvini che ha commentato dicendo che dava loro la sua solidarietà.”. 

Vladimir Luxuria: “‘Ridiamoci sopra’ purtroppo non basta. Dite che non c’è bisogno del Gay Pride perché Amedeo non andrebbe mai in giro con un cartello dicendo ‘viva la fica’. Bisogna chiedersi perché esiste il Gay Pride e non l’Etero Pride. Forse perché gli etero possono accedere al matrimonio mentre per i gay ci sono le unioni civili? Forse perché le coppie eterosessuali possono sperare di adottare mentre i gay no? Forse perché degli eterosessuali possono essere genitori e i gay no? Forse perché nessuno è andato mai in giro a picchiare qualcuno in quanto solo eterosessuale? E magari due gay in certi contesti prima di baciarsi fra di loro devono guardarsi in giro per vedere che non ci sia nessuno con cattive intenzioni di colpirli insultarli o picchiarli? Quindi ironia sì, diritto alla satira sì, ma attenzione: in contesti di omofobia transfobia bifobia, davvero, non basta farsi una risata.”. 

   Quando uno usa parole discriminatorie, non sta solo insultando: sta dicendo che si pone in una posizione di chiusura e di rifiuto nei confronti di diritti di cui non riconosce la legittimità. Questa mentalità sta cambiando: oggi si notano discriminazioni che finora venivano ignorate, e che comportavano conseguenze negative per certi gruppi sociali. Poiché si stanno moltiplicando gli atti di violenza contro quelle minoranze, il ddl Zan è una risposta migliore dell’autoironia delle vittime suggerita da Pio & Amedeo. Ma serve anche altro, come vedremo domani. (4. Continua) 

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (sabato 8 maggio)

Nelle puntate scorse abbiamo visto che l’errore argomentativo di Pio & Amedeo (la generalizzazione indebita) è stato commesso anche da chi li ha difesi; che l’autoironia delle vittime non è una risposta proponibile contro la discriminazione e la violenza poiché solleva i violenti dall’obbligo sociale e morale di non essere violenti; e che una risposta migliore è una legge che obblighi finalmente i violenti ad assumersi la responsabilità di comportamenti, oggi non sanzionati, che continuano a vessare vittime. Ovviamente non basta: serve un impegno educativo. Per esempio, studiare a scuola il manuale contro l’hate speech (tratto da un testo edito dal Consiglio d’Europa) diffuso in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che inquadra il problema ed esamina come valutare i discorsi razzisti e discriminatori per contenuto, tono, bersaglio, contesto e impatto. Vi si legge, fra l’altro: “Gli stereotipi negativi si diffondono nella società, certi gruppi diventano sempre più emarginati e isolati, si acuiscono i conflitti e le divisioni, e si aggravano gli abusi o le minacce, mentre alcuni individui testano fino a dove possono spingersi. Nei casi più gravi, le ‘espressioni di odio’ conducono ad aggressioni fisiche.” (Lo si è visto di recente con le violenze post-Covid contro gli asiatici.) Insegnanti e comunicatori dovrebbero essere istruiti, e istruire, su questo; e pure sugli errori di ragionamento, poiché comportano conseguenze molto dannose se commessi su temi rilevanti. E’ facile prendere abbagli in materia. Lo dimostra l’argomento usato negli anni ’60 da Lenny Bruce: sosteneva che è la repressione di parole come “negro” a dar loro violenza, forza, malvagità. Ne ricavò uno sketch divertente dove continuava a ripetere la parola “nigger”, insieme con tutti gli epiteti denigratori relativi alle nazionalità: “Se il presidente Kennedy andasse in tv ogni giorno e dicesse ‘Vi presento i negri della mia Amministrazione’, e questi si chiamassero fra di loro ‘negro’, e ogni giorno tu sentissi negro negro negro negro negro, nel giro di due mesi negro non significherebbe molto più di buonanotte o salute!” (shorturl.at/uzDHN). In tal modo, Lenny confondeva il post hoc (la parola ha uno stigma a causa della sua storia, per questo non viene usata per rivolgersi ad altri) con il propter hoc (non dire la parola le dà uno stigma): l’ennesima fallacia induttiva. (Infatti oggi i rapper dicono “nigger” di continuo, ma “nigger” resta un insulto, se rivolto ad altri.) Come già detto (Ncdc, 1 settembre), gli errori di ragionamento sono perfetti per la comicità, ma fanno deragliare le opinioni dai binari dell’argomentazione corretta, portando a giudizi falsi: anche per questo la propaganda politica e commerciale ne abusa. Chi lavora nella comunicazione ha il dovere sociale e morale di emendare il discorso pubblico dalla violenza psicologica di espressioni che legittimano quella fisica. I media di destra, invece, hanno prontamente lodato lo sketch di Pio & Amedeo contro il politically correct, con la solita apologia strumentale della libertà di espressione. Per poi insorgere compatti il giorno dopo contro l’intervento di Fedez al Concertone del 1° maggio. Altro caso emblematico: l’organizzazione e la Rai hanno cercato di convincere Fedez a desistere dal proposito di fare il suo monologo satirico; Fedez l’ha fatto lo stesso; e quando la Rai ha smentito il tentativo di censura, Fedez ha pubblicato in rete la registrazione della telefonata. Le reazioni hanno seguito un protocollo collaudato, come vedremo, col risultato di sviare l’attenzione di tutti dalla vera bomba atomica sganciata dal rapper: “Il Vaticano ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo.” (5. Continua) 

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 11 maggio)

In Italia, da mo’, opera un sistema di sorveglianza e punizione per impedire che un intellettuale e/o un artista scantonino dall’andazzo vigente nei media di massa. Il protocollo, rodato, ha due scopi principali: 1) impedire o controllare l’espressione, nei media di massa, di libertà non concordata che si occupi di politica e di Vaticano; 2) bastonare chi riesce a esercitare nei media di massa il suo diritto di espressione non concordata su politica e Vaticano. Chiudendo il suo monologo satirico al Concertone, Fedez ha sganciato in diretta una bomba nucleare: “Il Vaticano ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo.” Da subito, i giornaloni e le tv si sono concentrati sul detonatore, il tentativo di censura del monologo da parte degli organizzatori e della Rai; e sull’esplosivo, la Lega che si oppone al ddl Zan, con contorno di frasi immonde di politici leghisti contro gli omosessuali. Non si sono invece soffermati sul nocciolo radioattivo: il Vaticano ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo. (Mia zia: “Adda venì Lutero!”). I giornalisti non ne hanno parlato perché hanno il vizio nobile della notizia, che il giorno dopo è già scaduta. Questo però può renderli ciechi a un evento che trasforma la notizia nota in qualcos’altro, come quando un rapper famosissimo, durante il Concertone su Rai 3, denuncia l’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo (“un aborto chimico”, secondo la Chiesa). Un monologo satirico è un atto che produce effetti, e come ogni dispositivo culturale ha conseguenze sociali diverse a seconda del contesto in cui agisce. Una bomba satirica, a parità di chilotoni, ha un impatto devastante se la si sgancia, invece che sul web o sui giornali (un mare magnum che disperde l’uditorio), sulla Rai durante una diretta vista da milioni di persone. Chi è preposto a impedire gli impatti satirici nei media di massa lavora affinché il galateo reazionario in vigore non sia contraddetto. Un esempio recente è la sparizione, dal sito dalla pagina Fb del programma Le Iene, e da Mediaset Play, del servizio delle Iene sui voli di Stato di Maria Elisabetta Alberti Casellati: funziona così. E nessuno ha sottolineato la replica assurda di Davide Parenti, il capo delle Iene: “Non abbiamo avuto nessun problema a mandare in onda il servizio. Di telefonate io non ne ho ricevute. Poi non so…Non chiedete a me, posso solo dire che questa cosa è alquanto buffa.” Una censura clamorosa di natura politica, tipo Trotsky che scompare dalla foto con Lenin, lui la trova buffa. Speriamo possa continuare a fare Le Iene su Mediaset per altri 20 anni, impavido com’è davanti ai superiori.

   Il protocollo italico del killeraggio mediatico contro chi riesce a esercitare nei media di massa la sua libertà di espressione non è una novità. Si rabbrividisce vedendo come i cinegiornali degli anni ’60 sfottevano Pasolini: shorturl.at/xINSX.

   Fra le prassi del sistema di sorveglianza e punizione, è giusta la richiesta delle tv di esaminare in anticipo il materiale da trasmettere: un editore deve cautelarsi da grane legali. Diventa però censura se il materiale non contiene nulla di illegale, e la decisione di cassarlo è motivata solo da ragioni ideologiche e/o da corbellerie come il vincolo del contraddittorio con chi ha pronunciato la frase “Se avessi dei figli gay li brucerei nel forno”. Alla fine, Fedez ha potuto fare il suo monologo come l’aveva pensato, ma ha anche diffuso un video della sua telefonata con due organizzatori del Concertone e una dirigente Rai, per documentare il loro tentativo, imbarazzante, di dissuasione. Boom! (6. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 12 maggio)

Nel documentare il tentativo di censura, Fedez ha commesso un’ingenuità: l’ha definita “censura”, ma ancora non lo era (Ilaria Capitani, vice-direttrice di Rai 3: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo. Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto.”); e un errore: ha tagliato qua e là il video per riassumerlo, ottenendo un effetto enfatico (un silenzio apparente di Capitani dopo una sua domanda) che nell’audio originale non c’era (Fedez: “Posso dire delle cose che per lei sono inopportune ma che per me sono opportune, non hanno turpiloqui o bestemmie e riportano semplicemente i fatti?” Capitani: “Assolutamente.”). Resta il problema (Fedez: “Un artista meno privilegiato avrebbe ceduto probabilmente. E i dipendenti Rai, una tv di Stato, devono scegliere tra libertà di parola e far mangiare la famiglia. E’ giusto questo?”). Dopo l’esplosione della bomba satirica di Fedez (la denuncia delle pressioni dissuasive degli organizzatori del Concertone e della Rai, l’attacco alla Lega che si oppone al ddl Zan, e la chiusa sull’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo), il sistema vigente di sorveglianza e punizione ha attivato il solito protocollo. La procedura, rodatissima, consiste nello smerdare l’eroe. (Vi si dedicano in parecchi, e fanno sempre carriera.) Smerdare l’eroe è una fallacia ad hominem (invece di replicare nel merito della denuncia, si attacca la persona che l’ha fatta), ma fa presa sugli sprovveduti. Per smerdare si usa innanzitutto il tu quoque (“Le tue canzoni di qualche anno fa non erano politicamente corrette!” Fedez: “Ho sbagliato, ma poi ho cercato di migliorarmi.”). Poi l’aringa rossa, cioè spostare l’attenzione su un tema non rilevante (“Fedez ha una Lamborghini da 200mila euro. Vive in un attico da 2 milioni!” Fedez: “Se compro una Panda sono più credibile e posso dire quello che penso?”). Poi il benaltrismo (“Perché invece non ha parlato di Amazon che vessa i lavoratori? E del video di Grillo? E della Palestina?” Fedez: “C’è una lista di temi a cui devo dare una risposta prima di esprimere una mia opinione?”). Poi si insinua che lo fa per convenienza (“Così accalappia follower e like.”). Poi lo si sfotte (“Da Sciascia e Pasolini siamo arrivati a Fedez e Ferragni.”). Poi si confondono le acque (Polito sul Corriere: “Si deve certamente essere d’accordo sulla sua libertà di dirlo da un palco sul quale è stato invitato. Lo si sarebbe con ancora maggiore entusiasmo se i difensori del diritto di parola di Fedez avessero usato la stessa energia nel difendere la comicità di Pio e Amedeo.” Come se un monologo in difesa dei diritti Lgbtq+ fosse equivalente a uno sketch che le comunità di riferimento hanno giudicato razzista e omofobo.). La procedura punitiva viene poi estesa ai sorveglianti maldestri (Il leghista Capitanio: “Vogliamo vedere il contratto tra la società esterna che ha organizzato il Concertone e la Rai per un esposto alla Corte dei Conti e per esprimere un atto di indirizzo in Vigilanza, affinché l’Azienda di Servizio Pubblico impugni il contratto alla luce dei gravi errori che ci sono stati sul palco del Concertone. E mi riferisco sia all’uso strumentale della festa dei lavoratori per parlare d’altro senza contraddittorio, peraltro in una rete pubblica, e sia al mancato controllo sulla promozione di marchi pubblicitari da parte di Fedez, cosa assolutamente vietata dalle policy Rai.” La procedura punitiva contro l’eroe popolare si conclude, in genere, con una o più azioni legali (“La Rai ipotizza una denuncia contro il cantante”) che lo tengano impegnato in tribunale per decenni. Colpirne uno per educarne cento. (7. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 13 maggio)

Il protocollo rodato del sistema vigente di sorveglianza e punizione, con cui in Italia si impedisce che un intellettuale e/o un artista scantonino dall’attività consentita nei media di massa, per poi danneggiarlo se ci riesce lo stesso, è completato dal soccorso reazionario degli intellettuali e/o artisti che fanno parte del sistema. Dopo la bomba satirica sganciata da Fedez (la denuncia delle pressioni dissuasive degli organizzatori del Concertone e della Rai, l’attacco alla Lega che si oppone al ddl Zan, e la chiusa sull’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo), sono comparse in tutta fretta, su giornaloni e tv, interviste a protagonisti della comunicazione concordi nel derubricare la censura tv a “linea editoriale”. Meglio chiarire, a scanso d’equivoci interessati: è giusta la richiesta delle tv di esaminare in anticipo il materiale da trasmettere, un editore deve cautelarsi da grane legali. E, ovvio, può anche non piacergli il materiale: ma se il materiale non contiene nulla di illegale (per esempio roba razzista), e la decisione di cassarlo è motivata solo da ragioni ideologiche e/o da corbellerie come il vincolo del contraddittorio con chi ha pronunciato la frase “Se avessi dei figli gay li brucerei nel forno”, la legittima linea editoriale diventa illegittima censura. Il protocollo rodato serve anche a far confusione su questo punto. E allora Repubblica stampa un intervento dell’editore Laterza, da cui estraggo queste frasi: “Cos’è infatti la Rai se non un editore? Si può discutere delle scelte di un editore ma è suo diritto farle. Per quanto riguarda Fedez, in nome della libertà di espressione, si è messa in questione la possibilità stessa della Rai di discutere contenuti e modalità della sua performance. Vogliamo che la Rai si trasformi in una piattaforma di lancio di qualunque messaggio, senza alcun filtro editoriale?” No, vogliamo che la tv di Stato non censuri per motivi ideologici contenuti leciti, poiché la censura non è una linea editoriale. E allora il Foglio intervista Angelo Guglielmi: “Mi risponde che prima di Fedez dire di no non era censura, ma linea editoriale. Lei ha chi ha detto di no? ‘A Ettore Scola. Veltroni mi aveva chiesto di riceverlo. Scola voleva che gli producessi un documentario di sua figlia e una sua sceneggiatura. Entrambi i casi ho dovuto dire di no perché erano lavori che non mi convincevano.’ Censura? ‘Si sarebbe vergognato lui per primo a definirla censura.’” Certo, perché in questo caso non lo è: il caso Fedez è del tutto diverso, è stato un tentativo di censura, e non c’entra con il discorso della linea editoriale. E allora Open, il giornale online fondato da Enrico Mentana, intervista Carlo Freccero: “La Rai ha detto che è normale leggere prima i copioni. ’Ma no, il massimo che capita è che ti chiama il Comitato di Vigilanza e ti chiede di dare la parola a chi è stato attaccato. I cantanti non si possono mai controllare. L’arte è come la satira, non puoi pensare di mettere i paletti’.”. Tutti Je suis Charlie, a parole, ma quando Freccero, due anni fa, annunciò che voleva riportarmi in Rai (bit.ly/3yaUpvU), e ci incontrammo in presenza del mio avvocato, espresse come prima cosa la sua esigenza di “controllo editoriale”. Proposi una soluzione che tutelava la Rai e me: avrei consegnato la registrazione della puntata il giorno prima della messa in onda,  Freccero avrebbe potuto tagliare a piacere, e al posto delle parti tagliate avrei messo un riquadro nero con la scritta “materiale satirico giudicato non idoneo alla messa in onda”. Il programma, ovviamente, saltò, ed è molto interessante vedere come si mosse il micidiale protocollo di sistema. (8. Continua)  

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 14 maggio)

Intervistato sul caso Fedez, Freccero ha detto: “L’arte è come la satira, non puoi pensare di mettere i paletti’.”. Certo, Je suis Charlie; ma due anni fa, quando si bullò per mesi di riportarmi a Rai 2 (bit.ly/3tJzLQ8), al nostro primo incontro Freccero esordì esprimendo la sua esigenza di “controllo editoriale”. Poiché controllare la satira è censura, proposi una soluzione che tutelava la Rai e me: avrei consegnato la registrazione della puntata del mio talk-show il giorno prima della messa in onda, Freccero avrebbe potuto decidere quali parti tagliare, e al loro posto avrei messo un riquadro nero con la scritta “materiale satirico giudicato non idoneo alla messa in onda”. (La censura deve essere vista, quando c’è: è questo che non vogliono farvi vedere; di qui lo scandalo Fedez.) Il programma, ovviamente, saltò. Ma vediamo come funzionò il micidiale protocollo di sistema. Al secondo incontro con Freccero, chiedo quale proposta economica mi facesse la Rai. Freccero e Lavatore (un funzionario Rai) mi dicono che non è competenza loro, c’è un ufficio preposto; ma si fanno dare dal mio avvocato la copia di una e-mail che avevamo inviato a un’altra casa di produzione, dove veniva indicato a titolo informativo quanto La7 mi dava per Decameron nel 2007 (12 anni prima!). Passa qualche giorno, e il contenuto di quella e-mail (una cifra che non è mai stata oggetto di trattativa con la Rai) è pubblicato da Repubblica, in un articolo secondo cui il mio rientro in Rai si fa difficile a causa della mia “richiesta economica eccessiva”. Il tutto utilizzando il solito condizionale paraculo (“Luttazzi avrebbe chiesto”). In gergo, questo si chiama “intrafottere”. A luglio, presentando il palinsesto, Freccero dichiara a Repubblica che le trattative con me si sono interrotte per tre motivi: 1) “Il poco tempo a disposizione, in quattro-cinque mesi non si possono fare miracoli.” Miracoli? A maggio già si poteva concludere l’accordo, se davvero avessero voluto. 2) “La richiesta economica elevata.” Ripeto: non c’era stata alcuna trattativa economica con la Rai. 3) ”La satira di Luttazzi si basa su potere e sesso, che mi stanno bene, e sulla religione: in questa epoca pre-moderna ho ritenuto che quest’ultimo fosse un tema troppo difficile da affrontare.” E in ogni epoca, anche pre-moderna, questa si chiama censura. Pochi mesi dopo, Freccero dichiara a TvBlog: “Se mandassi in onda Luttazzi in questo contesto e alle condizioni economiche da lui imposte, i commenti il giorno successivo sarebbero più o meno del tenore: ‘Chi è questo Luttazzi, pagato come una superstar per insultare il pubblico con i suoi commenti politicamente scorretti?’ Il politicamente scorretto di Luttazzi non sarebbe valutato come espressione di libertà, ma come ‘turpiloquio inconcepibile in una Rete pubblica’. Ancora più scandalo farebbe il suo compenso completamente al di fuori delle leggi di mercato.” Notare le scelte lessicali e argomentative: “le condizioni economiche da lui imposte” (non ho imposto un bel nulla, e avevo chiesto a loro di propormi un compenso, ma non fu possibile alcuna trattativa: sparirono); “pagato come una superstar per insultare il pubblico con i suoi commenti politicamente scorretti”, “turpiloquio” (attribuisce a un pubblico ipotetico ipotetiche denigrazioni su di me, e sulla mia satira mai andata in onda). Il giornalista che fa da sponda senza obiettare è parte del sistema rodato. Altro esempio? La volta che Baudo (“Avrei spento le telecamere durante il discorso di Fedez”) mi tagliò al montaggio le battute dette in un’intervista sulla censura (bit.ly/2RQZKbm) e Repubblica scrisse che mi ero autocensurato: bit.ly/3f9THXg. A volte quasi rimpiango di non essere un criminale. (9. Fine)